Liberi dalle Opinioni (La Mente del Principiante)

– testo tratto dal libro “Il Cuore Saggio” di Jack Kornfield –

 

“L’emergere e il fluire della comprensione, dell’amore e dell’intelligenza non ha nulla a che fare con questa o quella tradizione, per quanto antica o suggestiva, non ha nulla a che fare con il tempo che passa. Accade per conto proprio quando un essere umano si fa domande, si interroga, ascolta e osserva senza lasciarsi bloccare dalla paura, dal piacere e dal dolore. Quando l’egocentrismo è acquietato e messo da parte, il cielo e la terra si aprono.”  Toni Packer

 

La saggezza dell’incertezza ci libera da quello che la psicologia buddhista chiama il roveto dei punti di vista e delle opinioni. “Vedendo l’infelicità di coloro che si attaccano alla propria opinione, il saggio non ne dovrebbe adottare alcuna. Un saggio non diventa arrogante sulla base delle sue opinioni. Come si potrebbe mai disturbare coloro che sono liberi, che non si aggrappano ad alcuna opinione? Coloro invece che si aggrappano ai punti di vista e alle opinioni vanno in giro per il mondo a dar fastidio alla gente.” Mi piace pensare che il Buddha abbia pronunciato quest’ultima frase con una risata. Ajahn Chah usava scuotere la testa e sorridere: “Avete così tante opinioni. E vi fanno soffrire così tanto. Perché non lasciare andare?” Ho notato che quando le persone arrivano allo Spirit Rock Center per un ritiro sono grate di poter fare un passo fuori dal baccano degli esperti politici, dei discorsi alla radio, degli slogan degli adesivi sui paraurti delle auto, del buon vecchio diritto americano ad avere la propria opinione.

La libertà dalle opinioni è come una ripulita agli occhiali, come un soffio d’aria fresca. Il maestro zen Shunryu Suzuki chiama questa apertura mentale “mente di principiante”.

Sentite come la evoca la grande naturalista Rachel Carson: “Il mondo di un bambino è fresco e nuovo e meraviglioso, pieno di stupore e di eccitazione. E’ una sfortuna che per la maggior parte di noi quella visione con occhi limpidi, quell’istinto naturale per ciò che è bello e che ispira reverenza, si offuschi o perfino si perda prima che raggiungiamo l’età adulta. Se mai potessi influenzare la fata buona che si ritiene presiedere alle faccende dei bambini, le chiederei di donare a ogni bimbo del mondo un senso della meraviglia tanto indistruttibile da durargli per tutta la vita”.

Quando siamo liberi dalle opinioni, siamo disposti a imparare. In questo grande universo in costante movimento, le cose che sappiamo con certezza sono proprio limitate, in realtà. Seung Sahn, un maestro zen coreano, ci dice di apprezzare quella “mente del non so“; ai suoi studenti faceva domande come “Cos’è l’amore?” “Cos’è la coscienza?” “Da dove è venuta la vita?” “Che cosa succederà domani?” Ogni volta gli studenti rispondevano: “Non so”. “Bene”, replicava Seung Sahn, “Conservate questa mente del non so. E’ una mente aperta, una mente limpida.”

Mi piace molto questa storia che mi ha raccontato la mamma di una bambina di cinque anni: la bambina aveva tirato fuori lo stetoscopio dalla borsa da medico della mamma, e ci stava giocando. La madre, dovendo che si metteva lo stetoscopio nelle orecchie, aveva pensato con orgoglio: “Sembra interessata alla medicina; forse da grande farà il medico come me”. Dopo un po’ la bambina si era portata alla bocca il padiglione dello stetoscopio e aveva esclamato: “Benvenuti da McDonald. Posso prendere la sua ordinazione, prego?” Al che la mamma si era messa a ridere con lei, sorridendo fra sé e sé: quanto siamo pronti a proiettare le nostre idee su qualcun’altro!

Nelle relazioni strette, se ci basiamo su ciò che diamo per certo perdiamo la freschezza. Quel che vediamo delle persone a noi vicine, amanti o genitori che siano, è solo una piccola parte del loro mistero; sotto molti aspetti, in realtà, non li conosciamo affatto. La mente da principiante ci insegna a vederci l’un l’altro in modo consapevole, liberi da questa o quella opinione. Senza opinioni ascoltiamo più a fondo, vediamo con più chiarezza. “Perché ci sono momenti”, dice Rilke, “in cui ci è entrato dentro qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto; muti, i sentimenti sono sempre più perplessi; tutto in noi si ritrae, c’è una certa quiete. E il nuovo – ignoto a tutti – se ne sta lì in mezzo a tutto quanto, e tace.”

La vitalità è uno dei marchi di riconoscimento di una psicologia basata sulla consapevolezza. Molti anni fa l’insegnante buddhista e psichiatra Robert Hall fece invitare Fritz Perls, suo mentore, al congresso annuale dell'”Associazione psichiatri americani. Perls era stato allievo di Freud ma poi aveva abbandonato la focalizzazione sul passato tanto comune nella psicanalisi, per introdurre un approccio nuovo chiamato “terapia della Gestalt”. Parzialmente influenzata dallo Zen, la terapia Gestalt si concentrava sulla vitalità di ciò che è vivo qui e ora. L’approccio di Perls era considerato con grande sospetto dalla psichiatria tradizionale. Al congresso, comunque, oltre un migliaio di persone ascoltarono quello che aveva da dire. Perls non presentò un caso clinico, com’era tradizione, ma chiese alcuni volontari per lavorare con lui sul palco. Nessuno dei medici alzò la mano; si presentò solo una donna, un’assistente di psichiatria di nome Linda.

Linda si sedette su una sedia di fronte a Perls. Lui esordì chiedendole come si sentisse in quel momento. Lei disse che era un po’ in ansia davanti a tante persone e che voleva chiedere il suo aiuto in una difficile relazione amorosa. Si era accesa una sigaretta; mentre parlava teneva in grembo la scatoletta dei fiammiferi e la apriva e richiudeva nervosamente. Perls notò quel piccolo movimento e le chiese di esagerarlo; mentre lei faceva scorrere avanti e indietro la scatoletta doveva parlare di quello che provava. All’inizio lei disse quanto le riuscisse difficile aprire (se stessa), poi, nel giro di un minuto, la scatoletta divenne la bara di suo padre. La donna fu travolta dalle lacrime, riversando fuori il lutto non elaborato della morte improvvisa del padre. Perls la aiutò a restare presente. Poi la donna parlò della relazione difficile con il partner, e di nuovo si mise a piangere. Nel giro di pochi minuti, Linda si rese conto che buona parte dell’ansia e della conflittualità che provava al momento era il timore di un’altra perdita. La sua guarigione iniziò quando Perls la aiutò ad ascoltare apertamente ciò che aveva dentro.

Quell’ascolto non è mai stato potente come quando ci troviamo faccia a faccia con il mistero della morte. Quando sediamo accanto a un morente, l’unico modo di aiutarlo è non avere alcun programma. A volte chi sta per morire piange e si angoscia; a volte è pieno d’amore; a volte lotta. Le persone che hanno intorno possono a loro volta essere in preda alla rabbia, all’angoscia, alla paura o al biasimo. Accompagnando i morenti li aiutiamo di più se riusciamo a mantenere la mente e il cuore aperti, inchinandoci alla loro esperienza senza alcun giudizio. Spesso, quando si consente alla persona di vivere per intero l’esperienza, tutti i presenti si rilassano nel mistero pieno di luce.

I volontari che prestano servizio negli hospices buddhisti sono addestrati a sedere in meditazione insieme ai morenti, a parlare e ad ascoltare, anche se il paziente può apparire confuso o non reattivo. Stephen e Ondrea Levine, pionieri in quest’opera, hanno documentato il fatto che le persone ascoltano anche quando in apparenza sono perse nel coma. Considerate quanto racconta Arnold Mindell, psichiatra junghiano: in un’intervista con Stephen Bodian descrive come siede in meditazione a respirare all’unisono con i suoi pazienti, un modo per mettere in contatto la propria coscienza con la loro. Qui sta parlando di un anziano in un ospedale pubblico per veterani di guerra.

John era in coma da sei mesi; rantolava e faceva molto rumore svegliando tutti gli altri pazienti. Andai a trovarlo e feci gli stessi rumori con lui, stringendogli la mano delicatamente. Dopo una decina di minuti aprì gli occhi e mi disse: “L’ha visto anche lei?” Gli risposi: “L’ho visto. Che cosa vede?” “Una grande nave bianca che sta venendo a prendere John!” “Ci salirà?” chiesi. “Io no di certo!” gridò. “Non ci salgo, su quella nave.” “Perché no?” gli chiesi. “Quella nave va in vacanza, è una nave da crociera. Io devo alzarmi al mattino e andare a lavorare, io!”

John aveva lavorato per tutta una vita e all’epoca aveva superato gli ottant’anni. Il cancro l’aveva ridotto a un mucchio d’ossa.Era lì, bloccato alla fine della vita perché non si permetteva di andare in vacanza. Così gli dissi: “Bè, mi sembra giusto alzarsi al mattino e andare a lavorare. Prima però verifichiamo la nave. Ci butti un occhio dentro e veda un po’ chi la governa”. Così lui salì sulla nave e disse con grande eccitazione: “Perbacco, ci sono degli angeli, a pilotare la nave!” “Vuole scoprire dove va?” Entrò in se stesso di nuovo e voltò gli occhi verso destra, come ascoltando qualcosa. “Sta andando alle Bermuda.” “Bene, quanto costa il viaggio?” dissi, sapendo che era un tipo pratico. Dopo qualche minuto disse: “Non costa niente”. “Ci pensi su”, dissi io, “è mai andato in vacanza?” “Non sono mai andato in vacanza. Mai. Ho lavorato, lavorato e ancora lavorato.” “Be allora ci pensi sopra. Faccia la sua scelta.” Finì per dire: “Vado in vacanza. Non costa niente e si va alle Bermuda…” Io dissi: “Magari se non le piace può fare un giro e tornare indietro”. “Certo, posso sempre scendere da quella nave.” “Farà quello che vuole”, dissi io. “Mi fido del suo giudizio. Sono molto occupato, adesso devo andare a trovare un’altra persona.” Così chiuse gli occhi e la faccenda finì lì. Quando tornammo, mezz’ora dopo, John era morto. Era andato alle Bermuda.