L’invito all’ascolto della vita

Non mi interessa cosa fai per guadagnarti da vivere, voglio sapere cosa desideri ardentemente e se osi soddisfare l’anelito del tuo cuore.

Non mi interessa la tua eta’, voglio sapere se rischierai di passare per pazzo nel nome dell’amore,per i tuoi sogni,per l’avventura di essere vivo.

Non mi interessa in quale pianeta hai la tua luna, voglio sapere se hai toccato il centro del tuo dolore,se i tradimenti della vita ti hanno aperto o se ti sei ritirato e chiuso per paura di nuove sofferenze.

Voglio sapere se puoi stare col dolore,il tuo e il mio,senza fare niente per nasconderlo,o dissolverlo o manipolarlo.

Voglio sapere se puoi stare con la gioia,la mia o la tua, se puoi danzare selvaggiamente e l’asciare che l’estasi ti riempia dalla testa ai piedi senza ammonirci di essere cauti,o realistici,o ricordare i limiti dell’essere umano.

Non mi interessa se la storia che mi racconti e’ vera, voglio sapere se tu puoi deludere qualcuno per essere vero con te stesso,se puoi sopportare l’accusa di tradimento e non tradire la tua anima, se puoi essere senza fede quindi degno di fiducia.

Voglio sapere se puoi vedere la bellezza, anche quando non e’ graziosa,ogni giorno, e se puoi attingere la tua stessa vita dalla sua presenza.

Voglio sapere se puoi vivere nell’insuccesso,il tuo e’ il mio,e tuttavia stare sulla riva del lago e urlare alla luna “SI”.

Non mi interessa sapere dove vivi o quanti soldi hai, voglio sapere se puoi alzarti,dopo una notte di dolore e disperazione,sfinito e dolente, e fare cio’ che va fatto per dar da mangiare ai bambini.

Non mi interessa sapere chi conosci o come sei arrivato ad essere qui, voglio sapere se puoi stare in mezzo alle fiamme con me e non fuggire.

Non mi interessa dove,cosa o con chi hai studiato, voglio sapere che cosa ti sostiene interiormente, quando intorno tutto crolla.

Voglio sapere se puoi essere solo con te stesso e se veramente ami la compagnia che hai nei momenti di vuoto.

 

(tratto da un testo di Oriah Mountain Dreamer)

Presenza assenza – poesia

C’è un uomo, sta pregando.

C’è una donna, sta pregando.

Ci sono esseri umani.

Ci sono io.

 

Corpo, mente, spirito. Ci sono io.

Per la prima volta vedo la paura e non ne sono più schiavo.

Posso vivere il mistero a cui sono destinato,

a cui tutti siamo destinati.

 

Illusioni? Realtà?

Se il destino fosse la somma delle nostre preghiere,

la somma delle scelte che facciamo?

La nostra definizione del percorso?

 

Immagini,

emergono e sprofondano inattese dalla coscienza.

Influenzano il destino?

Eco di un’umanità vissuta in modo poco umano.

 

Il pozzo della coscienza,

dissetante bevanda o trappola mortale.

Contenuti mutevoli dell’inconscio umano.

Lasciali andare.

 

Vite.

Incessanti, automatiche, veloci.

Vite, le nostre.

Cos’è la preghiera in questo mondo?

 

Uno sguardo amorevole,

una carezza gentile,

una voce che sussurra:

“Ci sono io per te”.

 

Cos’è la preghiera se non una scelta che influenza un destino?

La scelta di affermare:

“Ci sono io per me”,

“Ci sono io per te”.

Quale durata per la pratica?

Domanda: Dottor Kabat-Zinn, per quanto tempo devo meditare?

Risposta: Come faccio a saperlo?

L’interrogativo sulla durata della meditazione continua a essere posto. Da quando abbiamo iniziato il nostro lavoro usando la meditazione per i pazienti della clinica abbiamo avuto l’impressione che sarebbe stato importante per loro sottoporsi subito a periodi di pratica relativamente prolungati. Essendo fortemente convinti del principio che se si chiede molto si ottiene molto e viceversa, ci siamo orientati su quarantacinque minuti quale pratica basilare quotidiana da svolgersi a casa. Tre quarti d’ora ci sembravano sufficienti per instaurare un regime di tranquillità e di osservazione della successione dei vari momenti e forse per sperimentare almeno qualche istante di rilassamento sempre più profondo e un senso di benessere. Ritenevamo anche che quell’intervallo di tempo potesse offrire ampie occasioni per affrontare gli stati mentali che solitamente speriamo di evitare perché governano la nostra vita e riducono sensibilmente (quando non sopraffanno completamente) la nostra capacità di mantenere calma e consapevolezza. Naturalmente gli accusati sono come al solito noia, impazienza, frustrazione, paura, ansietà (a cui si aggiunge la preoccupazione per le cose che si potrebbero fare se non si perdesse tempo con la meditazione), fantasie, ricordi, risentimento, dolore, fatica e sofferenza.

I risultati hanno confermato la nostra intuizione. La maggior parte dei nostri pazienti si è sottoposta volontariamente alle non sempre facili modifiche nella vita quotidiana, praticando per quarantacinque minuti di seguito per un tempo di almeno otto settimane. E molti non si discostano più da quel nuovo cammino, che non solo diventa facile, ma anche necessario, un’ancora di salvezza.

Ma vi sono controindicazioni a questo modo di vedere le cose. ciò che può essere arduo ma fattibile per una persona in un dato periodo della sua vita potrebbe risultarle impossibile in un altro momento. Nel migliore dei casi concetti come “lungo” e “breve” sono relativi. La madre di bambini piccoli difficilmente potrà disporre di quarantacinque minuti filati per alcunché. Questo significa che non può meditare?

Se la vostra vita è in crisi perpetua o siete immersi in una situazione sociale o economica caotica, potreste avere difficoltà a raccogliere l’energia psichica necessaria per meditare a lungo, anche disponendo di tempo. Sembra che qualcosa si frapponga sempre, in particolare se ritenete di dover disporre di quarantacinque minuti anche come punto di partenza. Praticare in spazi ristretti e occupati da altri familiari potrebbe far sorgere elementi di disturbo e d’impedimento alla pratica quotidiana.

Non ci si può attendere che studenti in medicina possano riservarsi periodi di tempo prolungati per non-agire, e questo vale per molti altri che esercitano professioni stressanti o vivono situazioni impegnative. E anche per chi è mosso da semplice curiosità per la meditazione ma non ha alcun motivo impellente per sottoporsi a un’attività ritenuta scomoda o che richieda troppo tempo.

Per chi cerca equilibrio nell’esistenza, una certa flessibilità di approccio è non solo utile, ma anche essenziale. E’ fondamentale sapere che nella pratica meditativa il tempo non ha molta importanza; cinque minuti di pratica formale possono essere tanto intensi e profondi quanto quarantacinque minuti, o addirittura di più. La sincerità dell’impegno conta molto più del tempo impiegato, dato che in realtà si tratta di dissociarsi dai minuti e dalle ore per entrare nei momenti autenticamente privi di dimensione e pertanto infiniti. Di conseguenza ciò che importa è sentirsi motivati a praticare, anche per poco. La consapevolezza deve essere coltivata e blandita, protetta dai venti di una vita convulsa o di una mente inquieta e tormentata, allo stesso modo in cui una fiammella dev’essere riparata da forti correnti d’aria.

Se poteste trovare cinque minuti, anche uno solo all’inizio, sarebbe davvero meraviglioso; significherebbe che avete già compreso il valore di fermarvi, di passare anche momentaneamente dall’agire all’essere.

Quando insegniamo meditazione agli studenti di medicina per alleviare la tensione e talvolta il trauma dell’istruzione medica nella sua forma attuale, ad atleti che intendono allenare la mente oltre al corpo per ottimizzare la prestazione, a persone sottoposte a un programma di riabilitazione polmonare che devono imparare molte cose oltre che a meditare, oppure a impiegati che partecipano a un corso antistress durante l’intervallo del pranzo, non insistiamo su quarantacinque minuti di pratica al giorno. (Lo facciamo solo con i nostri pazienti o con persone pronte a intraprendere un tale drastico mutamento di vita per loro ragioni personali.) Li sollecitiamo invece a praticare per quindici minuti al giorno di seguito o due volte al giorno se vi riescono.

Se vi riflettete un attimo, pochi fra noi – indipendentemente da ciò che facciamo o dalla nostra situazione personale – troverebbero difficoltà a individuare due spazi di quindici minuti su ventiquattro ore di cui disporre liberamente. Se non quindici, allora dieci o cinque.

In una corda lunga quindici centimetri vi è un numero infinito di punti e altrettanti ve ne sono in tre centimetri. Bene, quanti momenti vi sono in quindici minuti, cinque, dieci o quarantacinque? Il risultato equivale a dire che abbiamo tempo in abbondanza se siamo disposti coscientemente a prendere atto di un certo numero di momenti.

Al centro della consapevolezza vi è l’intenzione di praticare e poi scegliere un momento qualsiasi assimilandolo pienamente con la vostra posizione interiore ed esteriore. Lunghi o brevi periodi di pratica sono egualmente utili, ma quelli lunghi potrebbero non sfociare mai in un esito utile se la vostra frustrazione e altri ostacoli sul vostro cammino fossero eccessivi. Molto meglio avventurarsi in lunghi periodi di pratica gradualmente e di vostra iniziativa, anziché rischiare di non raggiungere la consapevolezza o la quiete perché gli ostacoli sono giudicati insuperabili. Un viaggio di mille miglia inizia di fatto con un solo passo. Quando decidiamo di fare quel passo – ossia sedere anche per brevissimo tempo – possiamo astrarci dal tempo in qualsiasi momento. Da qui provengono tutti i benefici, solo da qui.

“Quando mi cercherai veramente, mi vedrai all’istante – mi troverai nel più piccolo ambito del tempo”.       Kabir

 

 

(testo tratto da Dovunque tu vada ci sei già di Jon Kabat-Zinn)

Mount Analogue (la metafora della montagna)

testo tratto da “Dovunque tu vada ci sei già” di Jon Kabat-Zinn

 

“Potrà farcela. Ma alla fine è la montagna a decidere chi la scalerà.”

(Capo spedizione all’Everest, in risposta alla domanda se un vecchio scalatore avesse probabilità di raggiungere la vetta)

Vi sono montagne esterne e  montagne interiori e la loro stessa presenza ci attira, ci sfida a scalare. forse l’autentico insegnamento di una montagna è che la si porta tutta dentro di sé, sia quella esterna, sia quella interiore. A volte la si cerca ripetutamente senza trovarla, finchè arriva il momento in cui si è sufficientemente motivati e preparati a trovare la via che dalla base porta alla cima. La scalata è una possente metafora della ricerca nella vita, del percorso spirituale, del cammino di crescita, trasformazione e comprensione. Le ardue difficoltà che si incontrano durante l’impresa rappresentano proprio le sfide necessarie per stimolarci a superare i nostri limiti. In definitiva la vita stessa è la montagna, la maestra che ci offre occasioni perfette per svolgere il lavoro interiore finalizzato alla crescita di forza e saggezza. E se scegliamo di metterci in cammino dovremo imparare e crescere molto. I rischi saranno considerevoli, i sacrifici imponenti, l’esito sempre incerto. In effetti l’avventura è la scalata, non stare in vetta.

Innanzitutto ci si deve familiarizzare col terreno alla base; solo in seguito si affronteranno le pendenze e infine, forse, la cima. Ma non è possibile rimanervi; l’impresa non sarà completa senza la discesa, per prendere distanza e vedere ancora la montagna da lontano. Essere stati in vetta, però, ha fornito una nuova prospettiva e può cambiare il proprio modo di vedere per sempre.

In un meraviglioso romanzo incompiuto dal titolo Mount Analogue, Renè Daumal ha redatto una mappa di questa avventura interiore. La parte che ricordo con maggior vivezza riguarda la regola invalsa di rifornire il bivacco che si lascia per coloro che verranno in seguito e scendere la montagna in modo da poter trasmettere agli altri scalatori le conoscenze acquisite perché possano approfittare di quanto si è appreso durante l’ascensione.

In un certo senso è quello che facciamo tutti quando insegniamo. Mostriamo nel miglior modo possibile ciò che abbiamo appreso fino a quel momento. E’ come un rapporto sulle cose fatte, un compendio delle nostre esperienze, certamente non la verità assoluta. E così l’avventura continua. Siamo tutti assieme su Mount Analogue. Ed è necessario l’aiuto reciproco.

Racconto di un’Esperienza di Ritiro

Questo articolo parla brevemente di una recente esperienza di ritiro di pratica di meditazione Vipassana a cui ho partecipato.

Ormai saprete che la meditazione Vipassana, o di chiara visione, è una delle tradizioni antichissime da cui derivano gli esercizi che pratichiamo durante i corsi di mindfulness per la riduzione dello stress. Bene, dovete sapere che noi istruttori formati all’Associazione Italiana Mindfulness, ogni anno abbiamo la responsabilità di approfondire la nostra pratica personale con un ritiro lungo di Vipassana. Per questo motivo quest’estate mi sono recata a Pian dei Ciliegi, un centro di meditazione che si trova vicino a Piacenza, dove vive periodicamente il monaco Bhante Sujiva, il quale conduce ritiri di questo tipo.

L’esperienza di entrare in ritiro può essere molto intensa soprattutto durante i primi giorni in cui avviene la disintossicazione da cellulare e internet e la mente deve rallentare il suo ritmo operativo per adeguarsi al nuovo ambiente.

Dal mondo frenetico, incessante, caotico e richiestivo in cui siamo immersi si passa a un contesto pacifico, aperto, stabile e prevedibile… condizioni alle quali non siamo molto abituati!

Niente cellulare quindi, niente parole inutili su che lavoro faccio e chi sono, solo l’incontro con un gruppo di persone provenienti da diverse nazioni sedute insieme, per praticare, in pace! Sono stata accolta in questa grande casa, invitata a sistemare la mia roba in una camera pulita e ordinata e mi hanno assegnato un piccolo compito da fare ogni giorno per contribuire al buon funzionamento del ritiro. Alcuni volontari curavano la cucina, altri l’organizzazione e le traduzioni dall’inglese all’italiano. Il clima era accogliente, collaborativo e rispettoso, tutto in modo da favorire il più possibile la concentrazione nella pratica.

La pratica è durata 3 settimane sotto la guida esperta, in lingua inglese, dell’insegnante.

Durante il ritiro ho notato una cosa importante: se con l’MBSR lavoriamo con impegno per aumentare la consapevolezza del momento presente, questo facilita notevolmente la pratica di Vipassana. Almeno questa è stata la mia esperienza.

Adesso immagino i pensieri di qualcuno che dicono: “Si vabè ma come si fa??”

Quello che ho descritto è stato un periodo di tempo abbastanza lungo dedicato solo all’approfondimento della consapevolezza, è vero, ma per cominciare basta molto meno. Potersi concedere un periodo di tempo per praticare, anche piccolo, può sembrare un sogno e invece è realtà. Provo un’immensa gratitudine per questo! Ma come tutte le realtà sono destinate a finire… e anche l’esperienza del ritiro è arrivata a conclusione. Ma un’avventura finisce e una inizia… ebbene sì, la pausa estiva è finita e si riparte con i corsi di Mindfulness per la Riduzione dello Stress!

Mi auguro con tutto il cuore che questa esperienza di ritiro possa servire indirettamente ai nuovi corsisti che inizieranno l’avventura del Mindfulness Based Stress Reduction la prossima settimana.

Avanti tutta!!!

 

Corso Mindfulness Reggio Emilia

Mindfulness è quel particolare stato mentale che ci permette di ridurre l’accumulo di stress ed evitare il burn out, restituendoci pace e fiducia.

Questo stato mentale cresce spontaneamente in ogni persona che si impegna con costanza nel fare particolari esercizi. Questi esercizi vengono insegnati in specifici corsi, strutturati in modo da facilitare la persona ad acquisire competenza nel ripeterli anche autonomamente e poterli inserire nella propria vita quotidiana. 

Il corso che qui proponiamo si chiama Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR).

L’MBSR è l’unico percorso nel mondo la cui efficacia è supportata da evidenze scientifiche (Evidence Based).
La diffusione dell’MBSR ha origine negli USA in ambito medico e ha avuto una grande espansione fino ad arrivare in Europa ed essere applicato a contesti medici,psicologici,sportivi e aziendali.

L’MBSR è una sintesi integrata di pratiche antiche più di 2500 anni e si colloca all’interno della cosiddetta body-mind medicine, o medicina integrativa, che considera mente e corpo come un’unità inscindibile. 

L’MBSR è un percorso di gruppo, strutturato, di durata bimestrale, con incontri settimanali di 2 ore e mezza, più una giornata intensiva di 7 ore. Al termine di questo percorso, le persone che si impegnano con costanza avranno le basi pratiche e gli strumenti tecnici per proseguire autonomamente il lavoro. 

Noi attiviamo periodicamente nuove partenze ma siamo disponibili a riflettere e progettare insieme a voi collaborazioni direttamente in azienda, in ambito sportivo o presso la vostra sede.

La Linea Sottile del Momento Presente

 

Vi è mai capitato di percepire chiaramente quella linea sottile che sta tra il non più e il non ancora?

Quella linea che risiede tra fatti e desideri, tra ricordi e attese.

Quella linea che scintilla sotto il sole dopo una nottata di rugiada come il filo di una ragnatela intessuta da chissà chi, chissà dove, chissà quando.

Vi è mai capitato di sentire che sopra quel filo noi camminiamo, come esperti equilibristi, facendoci largo tra folate di emozioni e nebbie d’illusioni?

Il filo rappresenta il momento presente, e noi, con passo lento ma sicuro possiamo andare avanti, prendendoci il tempo per ammirare la vallata e scegliere con consapevolezza la direzione da percorrere.

 

La Consapevolezza dei propri Bisogni nelle Relazioni Affettive

Sviluppare una consapevolezza profonda di sé a volte può portare a situazioni scomode. La scelta tra mantenere la coerenza con ciò che sentiamo essere il nostro bene può essere in contrapposizione con le richieste che ci vengono dall’esterno, in modo particolare nelle nostre relazioni affettive. Come fare?

Maturare una piena consapevolezza di noi stessi ci mette di fronte ai nostri bisogni profondi, al nostro abituale modo di colmarli e all’efficacia o meno delle abitudini che nel tempo abbiamo consolidato. Una volta che siamo consapevoli di quella che è la nostra esperienza momento per momento, possiamo scegliere di comunicarla creando uno spazio in cui i nostri bisogni si affiancano ai bisogni dell’altro. In questa apertura, lo spazio della comunicazione e dell’ascolto, hanno luogo il confronto, lo scambio e la mediazione. Quanto possiamo cedere di noi stessi per andare incontro all’altro? Un incontro armonico tra i nostri bisogni e i bisogni dell’altro è davvero possibile?

Non credo che esista una risposta univoca a questa domanda, ogni relazione ha una propria danza interna, uno scambio reciproco che avviene nello spazio interno ed esterno della comunicazione. Da qui però, possiamo partire verso la costruzione di relazioni più consapevoli, basate sul qui e ora dello scambio comunicativo e sulla possibilità di modulare la vicinanza o la distanza interpersonale sulla base della coerenza con noi stessi e del rispetto verso noi stessi e gli altri. Una volta che abbiamo preso consapevolezza dei nostri bisogni profondi, abbiamo la responsabilità di rispettarli, pena un costante senso di infelicità creata con le nostre mani dal mancato ascolto e rispetto dei nostri bisogni profondi uniti alla mancata comunicazione di questi alle persone per noi importanti.

Costruire relazioni armoniche e nutrienti è possibile, il primo passo è prendere consapevolezza dei propri bisogni nel qui e ora.

La Bellezza delle Piccole Cose

Imparare a fluire con l’esperienza significa assaporare fino in fondo ogni momento discreto e rimanere ricettivi, attenti ad accogliere ciò che si muove in noi. Questo non è, però, l’unico passaggio importante da fare, perché in base alla coloritura specifica dell’esperienza che stiamo vivendo, tenderemo ad attaccarci ad essa, rigettarla oppure ignorarla.

Nel primo caso, il caso dell’attaccamento a un’esperienza piacevole, tenderemo ad alimentare un pensiero circolare che riflette la spinta del desiderio, attivato da un meccanismo fisiologico del corpo, che ne vuole sempre di più. E’ il caso di un buon pasto saporito, oppure di un odore gradevole, oppure un momento di divertimento, calore e intimità con un’altra persona, fino al caso estremo delle dipendenze patologiche.

Nel secondo caso, il caso del rifiuto, o avversione, di un’esperienza spiacevole, tutto il nostro sistema psico-corporeo impiegherà energia per cercare di allontanare da sé o non ripetere mai più quella esperienza. E’ il caso ad esempio di quando assaggiamo cibo avariato o che non ci piace, di quando facciamo un piccolo incidente in automobile  e come prima reazione emotiva spesso c’è la paura di rimettersi alla guida e l’impulso a rimandare il più possibile questo momento, fino al caso estremo di rifiuto della vita presente nella depressione.

Nel terzo caso, il caso delle esperienze neutre, spesso ci suscitano noia se non indifferenza, per poi a volte sfociare nel grande bacino delle esperienze spiacevoli. Spesso ci dimentichiamo che le esperienze neutre possono trasmetterci un senso di stabilità, pace e sicurezza.

E’ interessante osservare come in ognuno di questi casi, se assecondiamo la reazione che segue l’esperienza senza prenderne consapevolezza, assisteremo ad una mobilitazione di energia nella direzione dell’automatismo, un moto interno che occupa spazio psico-corporeo, o più semplicemente, mentale. Lo spazio mentale occupato da questi meccanismi reattivi, toglie ossigeno all’elaborazione e all’integrazione dell’esperienza all’interno del nostro sé, che dispone un minor quantitativo di spazio per accogliere la nuova esperienza in entrata.

C’è sempre una nuova esperienza da accogliere, pur piccola che sia, che può insegnarci qualcosa, arricchirci, ed essere il nostro più grande maestro.

Per fluire con la vita, quindi, è necessario accogliere l’esperienza da una posizione di consapevolezza, passarci attraverso e infine lasciarla andare. In questo modo possiamo imparare a vivere con pienezza il momento presente, accogliendo e superando la sofferenza, saper godere e gioire della bellezza delle piccole cose.

Un istante passa la fiaccola a quello successivo, che la passa a quello successivo, a quello successivo ancora, così da mantenere acceso il fuoco della vita nel suo costante fluire.

Poesia – Quattro Respiri tra Vento e Mare

Lento il respiro

entra ed esce

esce ed entra;

Ampio il respiro

entra ed esce

esce ed entra;

Silenzio, ascolta.

Una voce risuona dalla profondità

è il battito del cuore, è ritmo, è armonia.

Tutto pulsa, tutto fluisce

il mare, il vento, il respiro.

Anche tu ed io, anche noi.

Mete lontane

ricordi

poi il ritorno al momento presente.

Lento il respiro

entra ed esce

esce ed entra;

Ampio il respiro

entra ed esce

esce ed entra.

Liberi dalle Opinioni (La Mente del Principiante)

– testo tratto dal libro “Il Cuore Saggio” di Jack Kornfield –

 

“L’emergere e il fluire della comprensione, dell’amore e dell’intelligenza non ha nulla a che fare con questa o quella tradizione, per quanto antica o suggestiva, non ha nulla a che fare con il tempo che passa. Accade per conto proprio quando un essere umano si fa domande, si interroga, ascolta e osserva senza lasciarsi bloccare dalla paura, dal piacere e dal dolore. Quando l’egocentrismo è acquietato e messo da parte, il cielo e la terra si aprono.”  Toni Packer

 

La saggezza dell’incertezza ci libera da quello che la psicologia buddhista chiama il roveto dei punti di vista e delle opinioni. “Vedendo l’infelicità di coloro che si attaccano alla propria opinione, il saggio non ne dovrebbe adottare alcuna. Un saggio non diventa arrogante sulla base delle sue opinioni. Come si potrebbe mai disturbare coloro che sono liberi, che non si aggrappano ad alcuna opinione? Coloro invece che si aggrappano ai punti di vista e alle opinioni vanno in giro per il mondo a dar fastidio alla gente.” Mi piace pensare che il Buddha abbia pronunciato quest’ultima frase con una risata. Ajahn Chah usava scuotere la testa e sorridere: “Avete così tante opinioni. E vi fanno soffrire così tanto. Perché non lasciare andare?” Ho notato che quando le persone arrivano allo Spirit Rock Center per un ritiro sono grate di poter fare un passo fuori dal baccano degli esperti politici, dei discorsi alla radio, degli slogan degli adesivi sui paraurti delle auto, del buon vecchio diritto americano ad avere la propria opinione.

La libertà dalle opinioni è come una ripulita agli occhiali, come un soffio d’aria fresca. Il maestro zen Shunryu Suzuki chiama questa apertura mentale “mente di principiante”.

Sentite come la evoca la grande naturalista Rachel Carson: “Il mondo di un bambino è fresco e nuovo e meraviglioso, pieno di stupore e di eccitazione. E’ una sfortuna che per la maggior parte di noi quella visione con occhi limpidi, quell’istinto naturale per ciò che è bello e che ispira reverenza, si offuschi o perfino si perda prima che raggiungiamo l’età adulta. Se mai potessi influenzare la fata buona che si ritiene presiedere alle faccende dei bambini, le chiederei di donare a ogni bimbo del mondo un senso della meraviglia tanto indistruttibile da durargli per tutta la vita”.

Quando siamo liberi dalle opinioni, siamo disposti a imparare. In questo grande universo in costante movimento, le cose che sappiamo con certezza sono proprio limitate, in realtà. Seung Sahn, un maestro zen coreano, ci dice di apprezzare quella “mente del non so“; ai suoi studenti faceva domande come “Cos’è l’amore?” “Cos’è la coscienza?” “Da dove è venuta la vita?” “Che cosa succederà domani?” Ogni volta gli studenti rispondevano: “Non so”. “Bene”, replicava Seung Sahn, “Conservate questa mente del non so. E’ una mente aperta, una mente limpida.”

Mi piace molto questa storia che mi ha raccontato la mamma di una bambina di cinque anni: la bambina aveva tirato fuori lo stetoscopio dalla borsa da medico della mamma, e ci stava giocando. La madre, dovendo che si metteva lo stetoscopio nelle orecchie, aveva pensato con orgoglio: “Sembra interessata alla medicina; forse da grande farà il medico come me”. Dopo un po’ la bambina si era portata alla bocca il padiglione dello stetoscopio e aveva esclamato: “Benvenuti da McDonald. Posso prendere la sua ordinazione, prego?” Al che la mamma si era messa a ridere con lei, sorridendo fra sé e sé: quanto siamo pronti a proiettare le nostre idee su qualcun’altro!

Nelle relazioni strette, se ci basiamo su ciò che diamo per certo perdiamo la freschezza. Quel che vediamo delle persone a noi vicine, amanti o genitori che siano, è solo una piccola parte del loro mistero; sotto molti aspetti, in realtà, non li conosciamo affatto. La mente da principiante ci insegna a vederci l’un l’altro in modo consapevole, liberi da questa o quella opinione. Senza opinioni ascoltiamo più a fondo, vediamo con più chiarezza. “Perché ci sono momenti”, dice Rilke, “in cui ci è entrato dentro qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto; muti, i sentimenti sono sempre più perplessi; tutto in noi si ritrae, c’è una certa quiete. E il nuovo – ignoto a tutti – se ne sta lì in mezzo a tutto quanto, e tace.”

La vitalità è uno dei marchi di riconoscimento di una psicologia basata sulla consapevolezza. Molti anni fa l’insegnante buddhista e psichiatra Robert Hall fece invitare Fritz Perls, suo mentore, al congresso annuale dell'”Associazione psichiatri americani. Perls era stato allievo di Freud ma poi aveva abbandonato la focalizzazione sul passato tanto comune nella psicanalisi, per introdurre un approccio nuovo chiamato “terapia della Gestalt”. Parzialmente influenzata dallo Zen, la terapia Gestalt si concentrava sulla vitalità di ciò che è vivo qui e ora. L’approccio di Perls era considerato con grande sospetto dalla psichiatria tradizionale. Al congresso, comunque, oltre un migliaio di persone ascoltarono quello che aveva da dire. Perls non presentò un caso clinico, com’era tradizione, ma chiese alcuni volontari per lavorare con lui sul palco. Nessuno dei medici alzò la mano; si presentò solo una donna, un’assistente di psichiatria di nome Linda.

Linda si sedette su una sedia di fronte a Perls. Lui esordì chiedendole come si sentisse in quel momento. Lei disse che era un po’ in ansia davanti a tante persone e che voleva chiedere il suo aiuto in una difficile relazione amorosa. Si era accesa una sigaretta; mentre parlava teneva in grembo la scatoletta dei fiammiferi e la apriva e richiudeva nervosamente. Perls notò quel piccolo movimento e le chiese di esagerarlo; mentre lei faceva scorrere avanti e indietro la scatoletta doveva parlare di quello che provava. All’inizio lei disse quanto le riuscisse difficile aprire (se stessa), poi, nel giro di un minuto, la scatoletta divenne la bara di suo padre. La donna fu travolta dalle lacrime, riversando fuori il lutto non elaborato della morte improvvisa del padre. Perls la aiutò a restare presente. Poi la donna parlò della relazione difficile con il partner, e di nuovo si mise a piangere. Nel giro di pochi minuti, Linda si rese conto che buona parte dell’ansia e della conflittualità che provava al momento era il timore di un’altra perdita. La sua guarigione iniziò quando Perls la aiutò ad ascoltare apertamente ciò che aveva dentro.

Quell’ascolto non è mai stato potente come quando ci troviamo faccia a faccia con il mistero della morte. Quando sediamo accanto a un morente, l’unico modo di aiutarlo è non avere alcun programma. A volte chi sta per morire piange e si angoscia; a volte è pieno d’amore; a volte lotta. Le persone che hanno intorno possono a loro volta essere in preda alla rabbia, all’angoscia, alla paura o al biasimo. Accompagnando i morenti li aiutiamo di più se riusciamo a mantenere la mente e il cuore aperti, inchinandoci alla loro esperienza senza alcun giudizio. Spesso, quando si consente alla persona di vivere per intero l’esperienza, tutti i presenti si rilassano nel mistero pieno di luce.

I volontari che prestano servizio negli hospices buddhisti sono addestrati a sedere in meditazione insieme ai morenti, a parlare e ad ascoltare, anche se il paziente può apparire confuso o non reattivo. Stephen e Ondrea Levine, pionieri in quest’opera, hanno documentato il fatto che le persone ascoltano anche quando in apparenza sono perse nel coma. Considerate quanto racconta Arnold Mindell, psichiatra junghiano: in un’intervista con Stephen Bodian descrive come siede in meditazione a respirare all’unisono con i suoi pazienti, un modo per mettere in contatto la propria coscienza con la loro. Qui sta parlando di un anziano in un ospedale pubblico per veterani di guerra.

John era in coma da sei mesi; rantolava e faceva molto rumore svegliando tutti gli altri pazienti. Andai a trovarlo e feci gli stessi rumori con lui, stringendogli la mano delicatamente. Dopo una decina di minuti aprì gli occhi e mi disse: “L’ha visto anche lei?” Gli risposi: “L’ho visto. Che cosa vede?” “Una grande nave bianca che sta venendo a prendere John!” “Ci salirà?” chiesi. “Io no di certo!” gridò. “Non ci salgo, su quella nave.” “Perché no?” gli chiesi. “Quella nave va in vacanza, è una nave da crociera. Io devo alzarmi al mattino e andare a lavorare, io!”

John aveva lavorato per tutta una vita e all’epoca aveva superato gli ottant’anni. Il cancro l’aveva ridotto a un mucchio d’ossa.Era lì, bloccato alla fine della vita perché non si permetteva di andare in vacanza. Così gli dissi: “Bè, mi sembra giusto alzarsi al mattino e andare a lavorare. Prima però verifichiamo la nave. Ci butti un occhio dentro e veda un po’ chi la governa”. Così lui salì sulla nave e disse con grande eccitazione: “Perbacco, ci sono degli angeli, a pilotare la nave!” “Vuole scoprire dove va?” Entrò in se stesso di nuovo e voltò gli occhi verso destra, come ascoltando qualcosa. “Sta andando alle Bermuda.” “Bene, quanto costa il viaggio?” dissi, sapendo che era un tipo pratico. Dopo qualche minuto disse: “Non costa niente”. “Ci pensi su”, dissi io, “è mai andato in vacanza?” “Non sono mai andato in vacanza. Mai. Ho lavorato, lavorato e ancora lavorato.” “Be allora ci pensi sopra. Faccia la sua scelta.” Finì per dire: “Vado in vacanza. Non costa niente e si va alle Bermuda…” Io dissi: “Magari se non le piace può fare un giro e tornare indietro”. “Certo, posso sempre scendere da quella nave.” “Farà quello che vuole”, dissi io. “Mi fido del suo giudizio. Sono molto occupato, adesso devo andare a trovare un’altra persona.” Così chiuse gli occhi e la faccenda finì lì. Quando tornammo, mezz’ora dopo, John era morto. Era andato alle Bermuda.

La Consapevolezza del Corpo in Acqua

Mi trovo tra le acque di un mare luminoso, immersa nelle sensazioni del corpo, e un’intuizione mi rimanda l’importanza fondamentale di questa esperienza. Il contatto con l’acqua può riportare alla mente una sensazione antica di piacevolezza diffusa a livello epidermico in tutto il corpo, una sensazione di pieno contatto, che riconosce e stimola il nostro confine fisico in ogni centimetro di pelle.

Durante i corsi di mindfulness ci esercitiamo molto nel riappropriarci delle sensazioni del corpo, sia nell’immobilità che nel movimento, e credo che il contatto con l’acqua possa facilitare la presa di consapevolezza del posto che occupiamo nello spazio intorno a noi attraverso il recupero della ricettività sensoriale.

La pelle è il più grande organo sensoriale del corpo e svolge una funzione importantissima sia organica che psichica, che è quella di permetterci di fare esperienza del confine tra il nostro mondo interno fatto di pensieri, emozioni, sensazioni, e il mondo esterno fuori di noi, con cui siamo costantemente in relazione durante l’intero arco della vita. Questo confine, delineato nei suoi contorni, ci rimanda alle potenzialità e ai limiti che abbiamo come esseri umani, più o meno legati alle specificità individuali.

Anzieu, psicoanalista francese, parlava di “Io pelle” per descrivere il senso del Sé che emerge dalla consapevolezza dei confini sensoriali maturata nell’arco dello sviluppo grazie al contatto pelle – pelle del bambino con l’ambiente che lo circonda, in particolare con le figure che gli hanno garantito accudimento durante l’infanzia.

Riappropriarci della piena consapevolezza di noi stessi passa anche da qui. Ricordarci di aprire l’attenzione alle sensazioni corporee ci permette di recuperare o costruire una rappresentazione coerente di noi stessi, dei nostri limiti e delle potenzialità ci appartengono, permettendoci di vivere più pienamente nel qui e ora.

Approfondire le Pratiche di Consapevolezza: Una Scelta di Valore

La vita è un processo in continuo fluire e noi siamo parte di questo eterno divenire. Secondo la metafisica buddhista, in particolare nella tradizione Theravada a cui appartiene la meditazione Vipassana, o di chiara visione, non esiste una sola realtà ma quella in cui quotidianamente viviamo è solo una parte di quella che noi chiamiamo esistenza: la realtà chiamata convenzionale è quella che quotidianamente in modo grossolano viviamo, in cui proviamo piacere e dolore, in cui ci emozioniamo, ci spaventiamo, ci sorprendiamo, quella in cui amiamo, è la realtà dei concetti che ci servono per comunicare e iniziare il percorso verso la comprensione profonda. Poi ci sono le cosiddette realtà ultime che sottendono la realtà convenzionale. Attraverso le pratiche di consapevolezza, il porre l’attenzione in modo intenzionale e non giudicante, momento per momento, sull’attività della nostra mente (considerate non disgiunta dal corpo), ci consente di penetrare al di sotto della percezione data dalla memoria di esperienze passate, al di sotto degli schemi reattivi, al di sotto degli istinti, delle emozioni e al di là del pensiero, al di la dei concetti.

Possiamo superare la sofferenza quotidiana, accogliere lo scorrere della coscienza e osservarlo, possiamo abbandonare il nostro limitato senso del sé ed espanderlo fino a contenere l’intera umanità. Attraverso la conoscenza di insight che si sviluppa con l’approfondimento nella pratica meditativa possiamo fare spazio ad una conoscenza chiamata di visione profonda, ovvero che non nasce attraverso I concetti e le lenti deformanti della percezione discorsiva, ma che semplicemente avviene quando lo spazio della mente è pronto ad accoglierla. La conoscenza di insight è come un lampo che attraversa la coscienza, in cui tu sei sia all’interno che all’esterno, e porta un’informazione chiara, immediate, non elaborata, che poi verrà immediatamente aperta e resa discorsiva dal pensiero concettuale e narrativo. Questo tipo di conoscenza va poi integrata nella realtà convenzionale e permette di scegliere in modo consapevole, chiaro, le azioni da intraprendere giorno dopo giorno. Iniziare un percorso per superare la sofferenza attraverso le pratiche di consapevolezza può essere una necessità, ma approfondire la coltivazione della consapevolezza è una scelta, che comporta impegno, sforzo e un orientamento verso il vivere una vita di valore, per se stessi e per il mondo.